piano duo colore

Per una volta voglio scrivere di un luogo che non ho conosciuto per motivi professionali. Quest'anno siamo andati al mare lontani dalle mete consuete e abbiamo attraversato l'Adriatico verso Igoumenitsa. All'andata il dio Nettuno o meglio, visto l'approdo, Poseidone, ci ha guardato con benevolenza e abbiamo dormito senza scossoni in una di quelle cabine dove fa o troppo freddo o troppo caldo, dove si diventa claustrofobici in pochi minuti e dove si viene presi da sospetti sulla pulizia. Una volta messo piede in terra greca, tutto era da scoprire. Prime osservazioni stradali: segnali chiari e ben conservati (ogni riferimento contrastante con il nostro paese è puramente voluto), bell'asfalto, pochissima spazzatura ai bordi. Ma la Grecia non è un paese meno sviluppato dell'Italia e quindi meno civile ecc.ecc.? Panorami meravigliosi che vivono del contrasto incantevole tra il verde e il blu. Chissà perché ho sempre pensato la Grecia come una terra riarsa dal sole, arida. Sul versante che abbiamo visitato la vegetazione è straordinaria e onnipresente. Data la nostra passione per la storia non abbiamo rinunciato a una breve deviazione a Nicopoli, città fondata da quell'antipatico di Cesare Augusto, dopo la battaglia di Azio vinta contro quel cretino di Antonio, mal consigliato da quella fetente di Cleopatra.
Siamo giunti a Lefkada, isola che un archeologo tedesco dice essere la vera patria di Ulisse, ma nessuno gli crede e tutti pensano alla vicina Itaca, come da tradizione, peraltro unica isola veramente arida della zona. Bellissimo ponte metallico che lascia passare a turno o quattro ruote o vele. Infine il mare. Subito attenti a cercare il difetto, la spazzatura, l'opacità, le correnti pericolose, forse le meduse. Nossignore: mare limpido, niente alghe, niente monnezza, niente meduse, quasi incredibile. Il nostro "studio", così lì chiamano i piccoli appartamenti, era sul mare, ma non come si usa dire dalle nostre parti anche per oggetti che distano 500 metri dalla battigia. Sul mare lì significa dieci metri. Un'esperienza mai provata, niente automobile (inevitabilmente ritrovata di ritorno a 44 gradi), niente strade statali da attraversare, niente binari da sottopassare, niente parcheggi a pagamento, niente stabilimento costosissimo. Ma ancora - e soprattutto - niente musica diffusa da bagnini sordastri, nessuna chiacchiera proveniente da ombrellone di destra, e /o di sinistra, nessun arancino o pasta al forno delle due. Se qualcuno parlava, era in greco, quindi rimanevamo felicemente estranei al discorso. È stata la prima volta che abbiamo potuto seguire i figli in acqua per ore dal patio di casa, senza ansie, perché il mare è sempre stato tranquillo e inoffensivo, perfetto per genitori che vogliono persino riposare. Occorre precisare che anche a Lefkada esistono grandi spiagge con tante teste bionde a fare il bagno, però le si possono evitare senza arrampicarsi sugli specchi.
Dato che sono un tipo di stomaco laborioso, la presenza sistematica di aglio, cipolla e cetrioli nelle ricette locali mi ha dato da pensare davanti ai menu dei ristoranti. Ma quando si mangia verso il tramonto al tavolo posto letteralmente sulla spiaggia, al rumore di una dolce risacca, persino le cipolle del ristorante preferito diventano digeribili.
Lefkada non è piccola ed è montuosa, ha quindi due facce, quella per i turisti che cercano il mare e quella dei residenti che vivono all'interno. Siamo andati un po' in giro e abbiamo scoperto luoghi che fanno pensare a quello che è stata l'Italia del sud cinquant'anni fa. Paesini con tanti visi rugosi seduti a prendere il fresco e a chiacchierare senza fretta, negozi che vendono prodotti locali che sembrano veri, sorrisi tranquilli, cortesia senza affettazione. Così abbiamo scoperto le lenticchie, vanto dell'isola, il miele che si presuppone biodinamico ante litteram, le olive e l'olio onnipresenti, i tessuti di tovaglie e tappeti che ci hanno fatto pericolosamente innamorare. E poi ulivi giganteschi e grandiosi, monumentali e deformi, accostati a migliaia di cipressi e pini, e colossali platani sotto i quali alla gente piace stare a mangiare e bere.
Sono stato nove giorni sotto la pioggia sottile e insistente della pianura padana. È un po' più difficile sorridere alla vita quando il cielo non ti dà tregua. Tuttavia la cordialità nativa degli emiliani e la professionalità dei lombardi non deflettono dinnanzi alle tinte grigie. L'Italia è un paese straordinario proprio perché offre panorami umani sempre vari e interessanti. Chi come me frequenta spesso Napoli e la ama, non si rammarica di osservare un po' di ordine in più. E, dal punto di vista professionale, mi è parso di essere tornato a trent'anni fa, quando suonare in bei teatri, in una cornice organizzativa efficiente e cordiale era una confortante consuetudine. Purtroppo a Parma la scelta estetica dell'architetto/senatore ha penalizzato gravemente il parametro essenziale di una sala da concerto: l'acustica. Quando non è centrata adeguatamente, l'ascolto e il conseguente piacere ne soffrono assai. Mentre a Modena il teatro oggi intitolato a Pavarotti è degno della migliore tradizione italiana, a Bergamo il Teatro Sociale, bruciato e abbandonato per decenni, è risorto con una modalità inedita, ovvero senza controsoffittatura, con le travi del  tetto scoperte. A suo modo affascinante. Com'è viva la "provincia" italiana, e che straordinari ambienti urbani ci regala!
Mi avevano preavvisato che il precedente recital era stato ascoltato da trenta persone. Come benvenuto non è male. Per un motivo che sfugge alla mia perspicacia ieri sera il bellissimo cortile del Palazzo del Duca era pieno di gente. Ero stato avvisato che il pubblico tende ad applaudire ad ogni cadenza che sappia di finale, interrompendo così il fluire dei brani. Ebbene ieri sera sono "riuscito" ad avere silenzio sino al termine della prima parte, Schumann - Prokoviev - Schumann. Tanto era il silenzio che alla fine dei Quadri, ovvero della Grande porta di Kiev l'applauso è giunto con uno sconcertante ritardo. Volevano essere ben sicuri che la Porta si fosse chiusa definitivamente?? La sensazione un po' avvilente è che la gente si sieda ad ascoltare senza un barlume di conoscenza e che la nostra musica scriva il suo racconto su una lavagna dove nulla era scritto e dove tutto verrà cancellato. Una sensazione di cui non voglio e non posso convincermi, ovviamente.
Ieri sera, in attesa del concerto, passeggiavo per la città vecchia sfiorando i tavolini che invadono letteralmente tutto lo spazio disponibile. Sembra che le orde di turisti siano giunti qui per mangiare. In un vicoletto anche quello occupato ho notato la porta laterale della cattedrale aperta. Strano, essendo le otto e mezza di un giorno feriale. Sono entrato e mi sono trovato nel mezzo di una Messa seguita da veri croati, abitanti di Dubrovnik! Un coro di una quarantina di persone, un organo maestoso. E con mia commozione ho ascoltato il corale dalla Cantata 147 di Bach, uno dei motivi conduttori della mia vita. Una sorpresa, un dono.
Sono seduto al tavolo numero 067 di un ristorante che fronteggia il vecchio porto. Intorno a me almeno trecento persone che mangiano al suono di un piano verticale e di un modesto violino. Tra i tavoli che occupano i lati dell'ampio, breve tratto di strada un flusso ininterrotto di persone che si muovono senza mèta per apparente necessità cinetica. A costo di risultare il solito brontolone, penso che questa città meravigliosa andrebbe conosciuta nel silenzio affinché le pietre che la fanno grande possano raccontare la loro storia. Tutta questa umanità che poco sembra interessarsi di esse infatuata com'è di sé stessa impedisce di entrare in sintonia con il magico ambiente. Credo di poter dire che lo è perché tutto concorre a un risultato straordinario: un mare magnifico, colline verdi a picco sull'acqua, le vestigia di un nobile passato che si armonizza con la natura. Gli uomini di qualche secolo fa avevano una sensibilità che, a giudicare dagli alberghi di lusso costruiti di recente, ci siamo persi per strada. Che peccato, che gran peccato…
Diario da Napoli verso Dubrovnik. Chiunque viene a sapere che sto partendo per Dubrovnik mi immagina con cappello da pescatore, crema solare protezione 50, infradito e occhialoni da sole. Ebbene non è così. Tra una folla traboccante che si agita in aeroporto mi sento un estraneo. Oggi vedo un gran numero di giovani che durante l'anno non frequentano questi luoghi. Hanno l'atteggiamento di coloro che lasciano con gioia i loro problemi a casa, rifiutando di ammettere che li ritroveranno senza sconti al loro ritorno. Certo che è ben gramo il destino dei musicisti girovaghi: spesso visitiamo città prive di qualsiasi attrattiva. Quando invece siamo invitati a suonare in luoghi di grandi bellezze ci stiamo poche ore tutti presi dal lavoro. Dire "Beati voi che viaggiate!" Non è carino, anzi fa un po' rabbia.
In una data lontana, quando eravamo molto giovani, varcai la soglia del Conservatorio di Milano chiamato ad occupare una cattedra di pianoforte principale. Grande emozione, un po’ di imbarazzo, un pizzico di orgoglio, un altro “meridionale” emigrato. Era un momento difficile, con cambi di direttore inusualmente bruschi, con turbolenze sociali che si riflettevano in qualche misura sia tra i professori sia tra gli studenti. Mi ritrovai a lavorare in una piccola stanza, su un pianoforte verticale, un po’ sorpreso dalla modestia della “location” (che brutta parola…). Soprattutto ricordo che mi trovai davanti ad un problema nuovo: insegnare musica e pianoforte. Penso oggi che, pur sapendo suonare bene il mio strumento, non avessi idee chiare su come insegnarlo. E quindi il mio imbarazzo non si limitò al primo ingresso, ma durò a lungo, forse sino a quando fui costretto dalla carriera concertistica a dimettermi dall’incarico che, per inciso, era a tempo indeterminato. Chissà se gli allievi di allora mi hanno perdonato… Sono passati moltissimi anni e torno in quel conservatorio, con una lunga esperienza di docente “da masterclass”, a parlare di pianoforte, di musica, attingendo dal lavoro di cinquanta anni. Le idee sono chiare, anche troppo, forse. L’amore per la musica è cresciuto in me insieme alla chiarezza. Spero, anzi sono convinto di passare delle belle ore con i nuovi studenti del mio vecchio conservatorio.
Se qualcuno di noi avesse qualche complesso di superiorità nei confronti di paesi lontani di cui poco si sa e poco si parla, dovrebbe visitare anche brevemente la città di Baku, a qualcuno nota esclusivamente per eventi sportivi. A me è capitato da poco e ne sono rimasto assai sorpreso. Il solo aeroporto nella sua dimensione gigantesca e sproporzionata rispetto ai pochi voli che ospita, batte il nostro Fiumicino e la nostra Malpensa cinque a zero; se confronto i viali maestosi che conducono al centro della città e penso all’incuria vergognosa che accoglie il turista all’uscita del nostro Capodichino, l’eventuale complesso diventa di inferiorità. Il decoro, diciamo pure lo sfoggio del benessere raggiunto attraverso la vendita del petrolio, si manifesta in un ambiente urbano che non ha niente da invidiare alle capitali europee. La sala da concerto risale ad un secolo fa, concepita in uno stile leggero, quasi frivolo, e la sera del concerto era piena di giovani. La fila dei primi violini era composta quasi esclusivamente da signore non giovanissime. All’ultimo leggio, isolato, sedeva l’unico uomo, che ogni tanto qualche nota la suonava. Durante la prova ho avuto qualche dubbio sull’energia che avrebbe potuto prodursi da quell’ensemble al femminile che un po’mi ricordava nell’atteggiamento distaccato e nell’abbigliamento un simpatico gruppo di impiegate delle Poste Italiane. Ma ho dovuto ricredermi: la sera, grazie alle sollecitazioni del bravissimo direttore, le signore si sono impegnate e l’esecuzione del quarto Concerto di Beethoven è giunta in porto brillantemente. Un’ultima annotazione: il giorno prima avevo ascoltato in una masterclass pubblica tre giovanissime studentesse della locale scuola di musica. Tutte e tre mostravano una determinazione che vorrei ritrovare più spesso nei giovani pianisti italiani. Una in particolare era piena di sacro furore. Me la sono ritrovata sotto il palco, alla fine del Concerto che mi porgeva un bel mazzo di fiori. Una bambina di otto anni nel mezzo della masterclass si è alzata tra il pubblico e in perfetto inglese mi ha detto che aveva appena incominciato a studiare il pianoforte e da grande voleva suonare come me. Se c’è una cosa che mi dà speranza, è quella di trovare nei bambini la stessa passione, lo stesso amore irresistibile per la musica che è stato per me, come per molti altri prima di me, il motore inesausto di tutta la vita. E questo amore nasce dovunque nel mondo, anche dove noi non immaginiamo possa accadere.
Ci siamo fermati un giorno in più! Non si poteva tornare a casa senza rivedere alcuni capolavori che fanno parte della nostra esistenza, e quindi siamo andati al Louvre, alla SainteChapelle, a Notre Dame, al Musée d’Orsay. La quantità enorme di opere d’arte rende impossibile una completa assimilazione di ogni cosa: se ne ricordano alcune, si mettono da parte altre, e ogni volta si resta colpiti da opere diverse, non per una graduatoria di valori - le graduatorie sono sempre ridicole - ma per un’affinità che muta a seconda del nostro stato d’animo e del momento della nostra vita. Questa volta ci portiamo a casa Monet e Renoir, Caravaggio e Veronese in compagnia di un piccolo meraviglioso ritratto infantile di Goya e un formidabile Antonello da Messina. E poi l’organo di Notre Dame che suonava all’impazzata, i rosoni fantasmagorici e, perché no, i negozi che vendono soltanto cioccolata, guardati da fuori le vetrine, come fanno le persone avvedute non giovanissime… ma questi bagagli di ritorno che sono impressi nella nostra memoria non fanno dimenticare gli arabeschi sonori di Javier in stato di grazia, la sera prima.
Ieri sera ho concluso il ciclo degli Anni di Pellegrinaggio in tre serate presso il Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia. Posso ora tirare le somme di un’esperienza molto positiva. Erano tre decenni che non suonavo in Recital nella città emiliana e nel frattempo il pubblico per questo tipo di concerto si è ridotto di numero: nulla di eccezionale, il fenomeno è quasi universale. Ma quella lontana esibizione non aveva come corollario una delle mie chiacchierate, a quell’epoca non lo facevo. Questa volta, suonando in un piccolo ambiente, dove potevo letteralmente guardare negli occhi i miei ascoltatori, ho provato a raccontare qualcosa di un autore che offre con le Années il meglio di sé, ma anche tra le sue cose più difficili da ascoltare. Ho avuto il piacere di osservare come gli ascoltatori si siano appassionati alla musica e al discorso su Liszt, sino al punto che la situazione si sarebbe potuta assimilare ad un grande salotto in cui si riuniscono periodicamente degli amici amanti della musica. Il contatto con il pubblico lo si sente quando si sta suonando, soprattutto: a Reggio ho saputo che gli amici seduti in platea mi seguivano con interesse e affetto. Devo ringraziarli per il calore che ha circondato la mia non facile impresa. Proprio come segno della mia gratitudine, ho regalato come fuori programma tutti i Quadri da un’esposizione di Mussorgski. Un solo bis, ma molto, molto corposo…
Stasera ho suonato nella chiesa che potete vedere in foto, con un pianoforte incapace di sostenere i miei assalti, ma con un pubblico molto attento. Una volta tanto non mi lamento di una acustica infelice. È stato il primo passo nella conoscenza del mondo musicale libanese, che avrà domani altri due capitoli. Una masterclass di 6 ore e il concerto con Monica la sera. Non posso che ripetere che insegnare ad un giovanotto per un’ora dal punto di vista strettamente didattico è una cosa inutile. Se invece consideriamo questo contatto come la possibilità di trasmettere allo studente energia, motivazione, ispirazione, allora devo ammettere che domani nessuno perderà il suo tempo. Dopo il concerto abbiamo scoperto la cucina libanese: uso apposta la parola scoperta, perché nulla di quello che abbiamo assaggiato ha parentele con la cucina europea: un altro mondo pieno di fascinosi profumi, figlio di una creatività non inferiore a quella del regno delle due Sicilie. Ultima osservazione: ho visto delle cose per strada, controsensi, sorpassi da brivido, ingorghi inventati da autisti stupidi, clacson dimostrativi, attraversamenti pedonali ad alto rischio che mi hanno fatto pensare che a Napoli, dico a Napoli, noi siamo quasi tedeschi
È la prima volta che visito il Medio Oriente ed in particolare un paese come il Libano che è il più aperto ad una visione cosmopolita. Beirut ha subito troppi insulti dalle guerre per essersi conservataquale doveva essere. Ivari suk che caratterizzavano il centro della città sono diventati un enorme centro commerciale, tanto per dare un esempio. Le grandi firme sono onnipresenti, come ho già scritto per Shanghai, Jakarta, Sydney, Buenos Aires, ecc., ecc. Ma il vero segno di cosa è Beirut sono le tante chiese e moschee chesi affollano tra loro, con tutte le sfumature del Cristianesimo accanto all’Islam. Convivono con apparente serenità, ma c’è qualcosa di diverso se mi è stata raccontata la seguente storia. Un capo di governo che aveva bisogno di amicarsi potentati arabi ha ottenuto di costruire in pieno centro un’enorme moschea con quattro alti minareti, guarda caso proprio accanto alla cattedrale maronita, quasi coprendola dall’alto delle sue dimensioni gigantesche. Occorre sapere che in precedenza, molto tempo fa, la cattedrale era il più alto edificio di Beirut per decreto e nessun altro era autorizzato asuperarlo. Il politico di cui sopra è morto in modo cruento alcuni anni fa. Subito dopo la sua scomparsa, il vescovo maronita ha incominciato ad alzare la voce sulla sopraffazione subita e ha ottenuto di costruire accanto alla cattedrale e quindi assai vicino alla moschea un magro campanile che, sempre per caso, è più alto dei minareti…
Diario dall’estremo Oriente. Parte III. È la terza volta che vedo Hong-Kong e ad ogni visita la trovo cambiata, trasformata, cresciuta di cubatura. Si costruisce freneticamente in altezza e rubando terra al mare. Esistono ancora il ferry che unisce l’isola a Kowloon e i mitici microtram coloniali. L’influenza inglese, benefica nel moderare la perpetua agitazione cinese, si sposa con la frenesia dell’acquisto dei nuovi ricchi che vengono qui per trovare tutte le “firme” che hanno invaso il mondo vanificando qualsiasi sorpresa. I prezzi, una volta molto interessanti, sono diventati proibitivi. La sensazione è di stare in uno dei centri strategici del mondo intero, dedicato alla finanza e al commercio, piuttosto che alla cultura. Certamente non posso essere smentito se dico che il livello degli strumenti che lì si trovano è modestissimo. Mentre a Jakarta ero pronto a tutto - e tutto mi è capitato, con un C7 Yamaha di produzione assiro-babilonese - a Hong-Kong, dove il denaro non manca, nella bella sala dove ho suonato potrebbe(dovrebbe) esserci un pianoforte adeguato: macché, un altro rudere. Ma, se il pubblico applaude entusiasta, cosa devo pensare? Che la spaventosa scordatura la sento solo io? O che posso vantarmi di averla fatta dimenticare? Propendo per la prima ipotesi. Però, al di là delle mie personali sofferenze, che bello suonare per un pubblico “giovane”! Non soltanto in senso anagrafico, ma soprattutto in quello psicologico: gente che ha voglia di sentire musica. Si torna a casa con la confortante sensazione che il nostro lavoro abbia (ancora) un senso.
Diario dall’estremo Oriente. Parte II. Jakarta è una megalopoli di 20 milioni di abitanti e cinque anni fa erano 15: una crescita di un milione all’anno. Grattacieli come se ne trovano un po’ dovunque, villaggi tradizionali dentro la città, traffico scoraggiante. L’acqua che scorre dai rubinetti non si può utilizzare neanche per cucinare, ci sono bomboloni ad hoc. Non c’è rete fognaria, quindi quando piove troppo, si può immaginare cosa portano i piccoli fiumi. Ancora una cosa che mi ha turbato: al cancello dell’hotel ci sono due controlli, uno per l’automobile sotto la quale passano un attrezzo a me ignoto per vedere se non ci siano bombe, l’altro come all’aeroporto, per indagare se l’ospite porta con sé oggetti “inappropriati”. Detto così, sembra che Jakarta sia invivibile: invece no. Gli indonesiani sono di indole cordiale e ospitale, con il sorriso sulle labbra. E ho avuto la bella sorpresa di essere ascoltato da un pubblico numeroso, giovane e silenziosissimo. Memore delle avventure cinesi, con platee che mangiavano durante il concerto, temevo qualcosa di simile, se non peggio. Invece… devo solo aggiungere che il “dopo-concerto” tra foto e autografi ha rischiato di essere più faticoso del concerto stesso!
Diario dall’estremo Oriente. Parte I. Come sempre, da 49 anni a questa parte, quando salgo su un aereo mi pongo un interrogativo: tornerò a casa? Lo ammetto serenamente, ho paura di volare, e questa paura si è acuita dopo alcuni momenti di panico vissuti per varie circostanze in prima persona. Ma oggi è stato diverso. Quando una settimana fa ho ascoltato la notizia dell’aereo caduto tra Indonesia e Singapore, sono stato preso da una sottile angoscia che non ha lasciato fino al momento dell’atterraggio. Ma ancora questo passi: la sensazione più atroce è stata quando abbiamo sorvolato proprio la zona dove si è inabissato l’aereo. L’idea che sotto il mare calmo e innocente ci siano uomini, donne e bambini, che viaggiavano come facciamo tutti noi - chi dorme, chi legge, chi chiacchiera, chi si annoia, tutti impreparati alla catastrofe, ghermiti di sorpresa - è qualcosa che mi provoca un sentimento di ribellione, come se “questa” morte fosse profondamente ingiusta e spietata. In aeroporto, a Jakarta, tutto normale nei comportamenti, come nulla fosse accaduto. Ma camminando nel corridoio verso i controlli, c’era a terra, sparso, un mucchio di piccoli fasci di fiori rinsecchiti: l’unico segno di una memoria che non deve durare troppo…
Sto lasciando Buenos Aires, felice di tornare a casa, ma con il pensiero che mi coglie sempre quando ritorno in questa città. Un pensiero indefinito: chi è Buenos Aires? Cosa ne devo cogliere per afferrare la sua anima? Basta uno spettacolo di tango? È sufficiente suonare per il pubblico del Coliseo? Non mi sembra giusto dire che qualsiasi città del mondo ha una sua personalità. Ve ne sono alcune che non mi dicono niente, altre che restano impresse per sempre. Ieri una persona del settore mi ha rivelato che a BA ci sono 500 (cinquecento) teatri attivi. Non è un eccezionale sintomo di una vitalità creativa? Ma resta la sensazione che il popolo argentino sia spesso malinconico, di una serietà e di una compostezza velate di nostalgia. Forse per questo nasce in me il desiderio di fare un passo avanti verso questa gente; perché la loro riservatezza offre spazio a un dialogo ricco di sfumature. Non posso dimenticare la nostra visita a una scuola di tango dove, a mezzanotte, si ballava. Un uomo anziano e pingue invitò una ragazzina a ballare: lei accettò con assoluta serenità l’invito di uno sconosciuto, non faceva niente se il cavaliere non era un bel ragazzo…
Veramente il salto tra San Isidro e Buenos Aires è impressionante. Eppure il mio residence a San Isidro era sulla Avenida che porta al centro, non era sperduto in campagna. Una giornata splendida, i grandi parchi di un verde ancora intenso, le piccole strade laterali della immensa Avenida 9 de Julio abbelliti da alberi fioriti; ho comprato le caramelle al dulce de leche, una delizia per l’intera famiglia e quando ho chiesto di prenderne tutte le riserve del negozio , mi hanno guardato come fossi un po’ matto… Torno al Teatro Coliseo che mi e ci ha visto in numerose e felici occasioni, ritrovo la vecchia signora che accudisce artisti e camerini, mi abbraccia con trasporto e mi mostra come ha curato la preparazione del mio camerino personale, vuole che prenda per forza qualcosa, un thè, un caffè, altrimenti che ci sta a fare lei? Comunque se tu incontri per la prima volta una persona che per qualche motivo sa di te, certamente ti schiocca due baci sulle guance. 1300 abbonati, un’atmosfera serena e familiare , come si fa a non suonare al massimo?
Oggi sette ore di lezione a sette pianisti argentini e brasiliani. Come sempre ne esco stralunato dai suoni e dalle persone. Perché quando ascolto un giovane che non conosco, mi è istintivo cercare in breve tempo di individuare i punti forti e i punti deboli del suo stare al pianoforte. Non sempre ciò è agevole; qualcuno si difende istintivamente, quasi fosse in corso tra noi un incontro di boxe, dove innanzitutto non bisogna scoprirsi. Molti ragazzi pensano che io sia lì per giudicarli e probabilmente per condannarli; non accettano il semplice fatto che sono accanto a loro per dare una mano, per dire loro qualcosa che non sono riusciti a mettere a fuoco come soluzione di un problema. E più hanno talento, più non vogliono essere messi in discussione. L’umiltà è merce rara, rarissima. Ma va bene così, chi è più vecchio ha il dovere di aiutare i più giovani, anche se questi non sono completamente d’accordo. San Isidro è un paesino delizioso, a soli 20 chilometri dal centro di Buenos Aires, ma da essa lontano anni luce, nel ritmo e nei rapporti umani. Domani mi troverò sbalzato sull’Avenida 9 de Julio, una delle strade più grandi del mondo, e mi adeguerò alla frenesia della metropoli.
Diario dall’Argentina: un Paese simile al nostro. Conosco la terra argentina dal 1970 e ogni volta che vi sono tornato ho trovato nuove e diverse situazioni sociali ed economiche, che peraltro non hanno inciso più di tanto sul pubblico, in qualità e quantità. Sarà una semplice impressione personale, ma ho la viva e piacevole sensazione di stare in un Paese molto simile al nostro: mi sento quasi a casa. C’è un po’ di confusione, un po’ troppa tranquillità nelle reazioni (scarsa “produttività?”), ma la gente è cordiale: si riesce persino a scambiare una frase in più dell’indispensabile. Peccato che la distanza che ci separa non accenna a diminuire, anzi, questa volta il viaggio mi è sembrato ancora più interminabile. Sul volo Alitalia di domenica sera il mio televisore non funzionava. All’arrivo mi si è avvicinato il capo del personale di bordo e mi ha offerto 150 euro come compensazione del mancato servizio. Sono rimasto sorpreso, non mi aspettavo che un paio di film fossero così importanti!
In sala, tra il piccolo pubblico che ascoltava il mio recital sulle parafrasi lisztiane, c’erano undici pianisti. Da essi non ho avuto alcun commento su aspetti professionali. Tuttavia, al termine della performance mi si è avvicinato un tipo smilzo, in T-shirt e bluejeans, mezza età andante, il quale senza neanche sapere il titolo del “secondo pezzo” che avevo suonato (Aida, per la precisione), con aria entusiasta mi ha fatto una precisa domanda. Si era accorto di una prodezza del mio pedale di risonanza, ovvero di come io fossi riuscito a conservare per un tratto lunghissimo la risonanza dell’ultimo basso e di come vi avessi suonato sopra un lungo frammento di melodia sull’acuto, con vari cambi armonici , senza sovrapporre il tutto. E non si spiegava la diavoleria. Non voleva lasciarmi, e insisteva per ricevere una risposta esauriente del mistero. Ho provato a dargliela, spiegandogli che non era come lui pensava una mia “invenzione”, ma semplicemente un uso particolare del pedale (a metà corsa), per creare atmosfere ricche di poesia. Tutto questo lo racconto per dire come le reazioni del pubblico sono spesso sorprendenti e provengono da persone inattese: il bello della musica.
Sono arrivato in Texas, a Dallas, città nota per fatti extramusicali, che vede tra le sue maggiori istituzioni la Southern Methodist University. Sono qui per insegnare e dare un recital. Pare di sognare: la scuola di musica è un edificio piacevole, pulito, in perfetto stato di conservazione, quasi grazioso. È aperto della mattina presto sino a mezzanotte (per chiarezza: le ore 24). E, ieri sera alle 23.45 quando uscivo a conclusione del mio lavoro, ho visto dietro le belle, luminose finestre della biblioteca tre ragazze orientali ancora intente a studiare. Occorre commentare i nostri conservatori e i nostri studenti? Secondo me dovrebbero prima cambiare i conservatori, poi gli studenti come naturale conseguenza, non certo il contrario. Ma è crudemente tangibile, al primo contatto, che qui siamo in un altro mondo, nel quale si fa di tutto per favorire chi ha voglia di crescere.
U.S.A. Tour. Piccole annotazioni sui costumi di una grande nazione: ristorante pseudo italiano dal nome la Tenuta (perché, why?). Nessuno parla italiano, forse nessuno è mai stato in Italia. Menù orribilmente italiano con tre sezioni: PICCOLI = antipasti, va bene, una botta di originalità SULATE = insalate PIATI = piatti = maincourses Ma perché non parlano inglese? Ad un incrocio leggo un’insegna di una specie di ristorante: Ma’ Foster open 24 hours. Anche la domenica, pieno di avventori. E in Italia che direbbero i sindacati? Qui non si rischia di morire di fame, qualunque ora sia. Coffee house: breakfast disperato. Ogni tentativo di trovare un qualcosa di commestibile urta contro una quantità di zuccheri folle. E la glicemia? eppure il sale non si trova più in circolazione nei locali pubblici, la crociata contro la pressione alta è da tempo in corso… Oggi siamo più o meno sottozero. Sono l’unico in tutta la città, per quello che i miei occhi vedono, con un cappotto addosso. Alcuni, uomini, donne e anche bambini, girano senza calze, in ciabatte con pantaloni corti e T-shirt. Più li guardo, più mi viene freddo. Ma che pelle hanno questi signori?
Non dobbiamo pensare che le cose vanno storte soltanto da noi: stasera abbiamo suonato con due stufette sul palcoscenico, essendo il riscaldamento della sala di concerto fuori uso da ieri. Ieri però era peggio, le stufette non c’erano e per sei ore ho provato e studiato con sciarpa, cappotto e cappello. Sono sopravvissuto senza troppi danni ad uno Steinway americano: evviva. Ho avuto la gioia di suonare ancora una volta con uno dei migliori quartetti del globo intero. Per una volta non ero io a debuttare un pezzo, bensì loro. L’abbiamo provato in tutto sei ore, durante le quali non si è discusso di note, intonazione, tempi, ritmo e cose così, che sono superate prima della prima lettura, bensì di arcate, soltanto di arcate. Non esiste un possibile confronto con il mondo del pianoforte, forse soltanto sull’uso del pedale di risonanza la questione potrebbe essere così sentita. Il Quintetto di Martucci è piaciuto oltre le mie aspettative: noi meridionali nutriamo complessi di inferiorità verso la grande musica europea, e non ci sembra possibile che un compositore nato a Capua possa competere a livello internazionale. E invece sì, Martucci piace e convince!
Piccolo diario dalla sala di registrazione: III e ultima parte. A parte i krapfen e i cioccolatini, gli studi Bauer dove ho registrato la scorsa settimana sono un esempio di altissima professionalità, confortata da un impressionante numero di star della musica che da lì sono passate. Voglio anche ringraziare Johannes Wohlleben che ha svolto con sensibilità la funzione di ingegnere del suono e Ermanno Basso, impareggiabile produttore, che ha assunto una funzione altrettanto importante: quella di tranquillante del sistema nervoso pianistico. Chi ha registrato un disco sa che alla fine si gioca tutto su quest’ultimo aspetto. Devo ammettere che la scorsa settimana non sono mancate sane risate!
Piccolo diario dalla sala di registrazione: parte II. Seconda giornata di massacro: non 10 ma 11 ore di fila. Il mio lavoro è terminato, tocca ora allo straordinario partner che mi affianca in questa esplorazione musicale. Un anno fa mai avrei immaginato di trovarmi oggi immerso in un’avventura così imprevedibile e stimolante. Mettersi in gioco è un modo per tenersi giovani e certamente non mi considero tipo che si tira indietro. Siamo estremamente curiosi di ascoltare i risultati del nostro incontro (e l’accoglienza che avrà).
Piccolo diario dalla sala di registrazione: parte I. Tante sono state le ore passate nello storico studio Bauer di Ludwigsburg oggi, mentre un inatteso brillare di sole suggeriva una bella passeggiata. Se esiste un aspetto oscuro della nostra professione, quello è registrare dischi. In questi casi, quando la resistenza nervosa è messa a durissima prova, ogni piccolo dettaglio può aiutare la sopravvivenza. Come ho detto in altre circostanze, i tedeschi sanno essere simpatici e ospitali come e più di noi. Quindi non sono mancati nel corso del lavoro generi di conforto quali torte monumentali, krapfen grandiosi, cioccolatini e via discorrendo. Un pensiero grato ai nostri calorosi ospiti.
Esiste sempre la tentazione di pensare che il mondo ruoti intorno a noi, come persone o come comunità. Vivendo in Italia, inconsciamente ne facciamo il centro di ogni nostro interesse. Poi si va a Varsavia, dove si incontrano musicisti di paesi lontani (più psicologicamente che geograficamente) e si scopre che la musica si fa anche lì, che anche lì esistono progetti, talenti, strutture. Fa bene alla salute dimenticare per qualche ora la nostra piccola dimensione per misurare quanto il mondo sia grande e vitale. E scoprire che nella riunione di EMMA for Peace, Campanella è di gran lunga, diciamo così, il meno giovane; ma non per questo meno pronto ad accettare una nuova, stimolante sfida. EMMA for Peace è nata, ora deve fare i primi passi, con gli auguri di una lunga, prospera vita.
Ultime ore in Cina con tanti ricordi che mi seguiranno. Mi rendo sempre conto in queste circostanze che le sensazioni del viaggiatore sopravanzano quelle del musicista. Il mio rapporto con il pianoforte non cambia, dovunque io suoni, mentre infiniti dettagli della vita qui, intorno a me, mi parlano di una società diversa, in travolgente trasformazione. Tra le tante cose da raccontare vi è un piccolo fatto di costume che capita ogni pochi minuti nella stazione centrale di Pechino, la più grande dell’Asia. Tutti i viaggiatori di uno specifico treno sono in coda ad una specie di gate d’aeroporto, in attesa che esso si apra e si possa raggiungere il binario. Alla vigilia dell’apertura una ragazza vestita con una divisa e un cappellino rossi molto graziosi fa un bel discorso anticipato e concluso con due inchini rivolti ai viaggiatori. Tutto molto formale, si dirà; ma a furia di rinunciare alla forma… se io penso al personale delle Ferrovie dello Stato… comunque, come sempre in Cina, torno con un’immagine negli occhi. I bambini che vengono a chiedere l’autografo e la foto, i loro sorrisi, la loro emozione, il loro imbarazzo tenerissimo. Grazie, Cina.
Pechino è molto diversa da Shanghai, nel senso che è più compassata, nordica e burocratica. La frenesia di Shanghai qui si quieta un po’. Lo stesso pubblico del Concert Hall è in grado di seguire il concerto in un silenzio che si avvicina abbastanza al livello europeo. Sono evidenti i segni di una trasformazione lenta ma indiscutibile. Ho anche avuto l’incredibile fortuna di vedere il sole e ora la luna. È un evento raro, visto lo spaventoso inquinamento che incombe sulla città (18 milioni di anime). Devo dire che i due argomenti più toccati nelle chiacchere sono appunto il grado di inquinamento e il traffico. Si parla sempre di uno dei due. Beati i tempi delle biciclette! Ora anche le biciclette hanno applicato un motore elettrico, di cui non so niente di preciso, con i seguenti risultati: il ciclista resta immobile sui pedali e la bicicletta si muove da sola. Il che fa una notevole impressione, perché il ciclista gode del motore in un atteggiamento contemplativo e riconoscente. Secondo effetto: il motore, essendo elettrico, non fa rumore. È una buona cosa ma i ciclisti non si preoccupano di farsi sentire in altri modi, per cui ti vengono addosso in assoluta tranquillità. Qui, per strada, si rischia la vita e nessuno protesta. Ho visto cose che in Italia avrebbero avuto conseguenze gravi, ovvero litigi, risse, delitti preterintenzionali. Qui invece nessuno reagisce, però uccidono il pedone senza batter ciglio. Sono diventato vecchio: ho paura di attraversare la strada!
Shanghai 3 e ultima parte. Stento a trovare i termini giusti per definire le mie reazioni all’ambiente urbano di Shanghai. La città è ormai un’immensa fungaia di grattacieli, migliaia, non centinaia. Il risultato della visione mai complessiva ma invece continuamente trasformata a mano a mano che si procede in taxi, è sconvolgente, perché i mostruosi edifici appaiono come giganti. E quindi Shanghai una città abitata non più da esseri umani, bensì da giganti: giganti alti, altissimi, bassini, bassi, grassi, tozzi, magri, tondi, squadrati, deformi, informi, contorti, colorati, decrepiti, sgargianti, sporchi, lucidi. Come si sentiva Ulisse in presenza di Polifemo? Essendo ormai ridotti al lumicino gli antichi monumenti e i loro ambienti, la città si è creata una nuova categoria di monumenti, i grattacieli appunto. Non sono soltanto immensi condomini o uffici, hanno pretese estetiche ambiziosissime, sono in effetti una nuova forma d’arte del XXI secolo. In questa atmosfera allucinante, al centro di un qualsiasi incrocio tra strade a tre, quattro, fino a sei corsie, con i semafori che segnano vari tempi per consentire ogni svolta alle automobili nevrotiche e chiassose, si vedono facilmente isolati pedoni, ciclisti ed altro rischiare la vita tranquillamente per attraversare detto incrocio nel momento sbagliato. L’anarchia stradale cinese non molla neanche in circostanze vicine all’apocalisse urbana!
Shanghai parte 2. Non ho dubbi sul fatto che una sala magnifica influisca sullo stato emotivo dell’artista. Nel caso di Shanghai è inevitabile sia così. Ma anche, dalle foto che da qui vi arrivano, si vede bene come questa gente sia capace di un entusiasmo forse da noi dimenticato. Lunedì e martedì ho insegnato per un paio d’ore ciascuna in due diverse università. Ho ascoltato sei giovani studenti, ho cercato di semplificare al massimo le mie osservazioni, di trasmettere qualcosa che accendesse il loro amore per la musica. Come in ogni parte del mondo i giovani pianisti vanno disperatamente alla ricerca di una prospettiva che sciolga i loro problemi. Non aspettano altro che qualcuno dica loro qualcosa. Ma la strada è talmente lunga ed impervia che una lezione di mezz’ora è solo una goccia di pioggia nel deserto. Comunque sia, sono stato circondato, soprattutto ieri, da emozione, timore, speranza, timidezza, curiosità, tanti sorrisi e una foto per ciascun presente (30? 40?). Quella delle foto è una cerimonia inevitabile, lunga quasi come l’impegno professionale ad essa collegato. Che se ne faranno della foto insieme a me?
Shanghai parte 1. Il Concert Hall di Shanghai è una vecchia sala che, prima di essere stata restaurata in modo eccellente, è stata letteralmente trasportata da un sito ad un altro della città: hanno fatto bene perché esteticamente è una delle più eleganti sale che io conosca, e acusticamente un luogo dove si suona nel più naturale dei modi. Come succeda poi che la domenica mattina alle 10 e 30 essa sia esaurita con sedie aggiunte, rigurgitante di bambini, ragazzi e giovani, è uno dei tanti misteri di questo Paese. La quantità di foto insieme al sottoscritto che vengono richieste a fine concerto è tale che mi pare di essere una specie di totem portafortuna. Ma devo continuare con due piccole osservazioni del viaggiatore. In molti taxi il poggiatesta del sedile accanto all’autista sul suo retro viene adoperato per imporre al passeggero una sfilza ininterrotta e ripetitiva di video pubblicitari. Non ti lasciano nemmeno godere il brivido della guida “spensierata” dei taxisti cinesi. Ancora sui ristoranti: oggi ne ho provato uno elegante e raffinato. Mancavano i tovaglioli sulle tavole, ne ho chiesto innocentemente uno: non ne avevano, mi hanno dato un pacchetto di fazzolettini di carta. Come si puliscono la bocca e le mani? una delle due: o non si sporcano per niente o si puliscono con la manica della camicia… domani prossima puntata sull’Università di Shanghai.
Nanjing 3 e ultima parte. A proposito di musica, del mio concerto a Nanjing vorrei dire solo le cose belle e curiose. Al termine del programma, dopo aver suonato l’Ouverture del Tannhäuser, l’applauso si è spento appena mi sono ritirato dietro le quinte. Ben misero consenso, mi sono detto. Ma il presentatore annunciava intanto che mi sarei presentato di nuovo per regalare un fuori programma. Di ritorno sul palco, un tripudio di applausi, urla e fischi. Mi sono seduto e ho attaccato le Variazioni di Mozart su “Ah, vous dirai-je, Maman”. È scoppiato il finimondo, tutta la sala si è messa a cantare e battere il tempo di ogni semiminima. Non escludo che Mozart si sarebbe molto divertito e avrebbe apprezzato una reazione così “informale”. Inoltre non dimentico che, alla prima esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven, durante i soli del timpano nello Scherzo, il pubblico non tratteneva un applauso.
Nanjing parte 2. (continua) L’altra sera, dopo concerto, con una scelta pressoché illimitata tra ristoranti, siamo finiti in una bettola lurida. Il cibo non è stato malvagio, ma anche stavolta vi è stato il problema delle posate. Alla terza richiesta mi è toccata una forchetta per neonati, miniaturizzata e unta da precedenti usi. Il mio anfitrione, si fa per dire, mi passava il bicchiere e i piattini non prima di averli puliti con fazzolettino di carta. Forse ho guardato con eccessiva insistenza uno spettacolo ipnotizzante: un giovane al tavolo accanto mangiava e beveva un intruglio tipico. La posizione assunta con il naso a pochi centimetri dal tavolo, i gesti scimmieschi e i rumori conseguenti avrebbero dovuto essere documentati per sostenere la mia opera educativa nei confronti del comportamento dei nostri figli a tavola. Forse… forse avrebbero preso le distanze dal giovanotto di Nanjing.
Nanjing parte 1. Tra le tante cose da osservare in questo paese, devo scegliere quelle che nella loro piccolezza mi hanno colpito. In questi giorni ho mangiato in vari ristoranti di diversi livelli. Due giorni fa, in un pacchianissimo ristorante di cucina stile Macao, ho avuto dinnanzi a me un pentolino con fornello a spirito e relativo brodo imprecisato che bolliva continuamente. Lì dentro potevo far cuocere quello che desideravo, avendo scelto in un abbondante menù. Ma, c’era un ma, alla richiesta di coltello e forchetta, la risposta è stata: non ne abbiamo. La mia tenace guida ha chiesto per la seconda volta. Nessuno si offende se si chiede più volte la stessa cosa, qui è consueto. Niente posate. Ha chiesto la terza volta creando un turbamento nel personale. Dopo un po’ di confabulare e un’attesa sono arrivate le posate, tipo quelle che ci danno in classe turistica in aereo, provenienti da un ristorante vicino. Altrimenti avrei saltato la cena già ordinata. Dovrei imparare a usare le bacchette, ma alla mia età… (continua).
Piccole osservazioni. Il primo impatto con la nuova Cina dopo otto anni è dominato dalle dimensioni. La tendenza a costruire giganti è sempre più marcata. L’aeroporto di Pechino mi è sembrato enorme: a loro sembra insufficiente, ne costruiranno uno più grande. I grattacieli di Shanghai sono masse colossali di cemento, ma i nuovi che continuano a costruire sono ancora più mostruosi. Ogni tanto si vedono quelle abitazioni che una volta erano normali, due piani, non di più. Ora sono esemplari preistorici in via d’estinzione. La stazione ferroviaria è una piccola città, ormai mi ci devo abituare, le dimensioni sono ineluttabilmente così. Si incominciano a vedere signore che sono sulla strada dell’eleganza europea, poche ma un chiaro segnale di evoluzione sociale. Le modelle dell’onnipresente pubblicità tendono ad avere volti non marcatamente orientali, una specie di compromesso con le sembianze occidentali. I punti di riferimento, anche qui, siamo noi. Sino al fatto che il ristorante “caratteristico” ha nel menù una pagina di spaghetti (quelli napoletani, ohimè), ma non ha più una scelta di riso secondo tradizione locale. In cambio esiste un hot dog francese (?????). Perché svendere così la propria storia per acquisire elementi estranei e fasulli? I taxi guidano come dei pazzi e suonano il clacson come si faceva una volta a Napoli, un colpetto ogni tanto anche se non serve . Male non fa, secondo loro. C’erano una volta selve di biciclette, selve, non esagero. Ricordo i semafori di Pechino nel 1995: erano un impressionante assembramento di ciclisti indisciplinati. Oggi le bici sono rare e quasi tenere, surclassate dalle automobili.
Diario da Galatina: Armonie. Ancora una volta devo parlare con entusiasmo di un’Italia “minore” che è ricca di risorse, energie e bellezze insospettabili. Mia moglie e io conoscevamo già la strepitosa chiesa di Santa Caterina, tutta affrescata nel ’400, ma Galatina non vive soltanto di questa gloria. E, tra le iniziative che provano a risollevare la vita del magnifico centro storico, c’è anche il festival “I concerti del chiostro”, per il quale ho suonato all’aperto (!) domenica scorsa. Tre cose mi conserverò nella memoria: un pubblico attento ed entusiasta, un albergo speciale per ospiti speciali (Palazzo Baldi), e il “fruttone”, dolce composto di cioccolata, pasta di mandorle, marmellata di amarene e un po’ di pasta frolla. A dirlo non sembra niente di straordinario, ma ad assaggiarlo si capisce che la parola armonia si può applicare anche al gusto.
Diario da Weimar: Casa Goethe. Anche la casa dove Goethe visse per cinquant’anni è molto più familiare di quanto ci si possa aspettare, sapendo che essa contiene le immense collezioni del poeta. Colpisce soprattutto il suo amore per la cultura greco-romana: la casa è gremita di copie di statue conosciute durante il suo viaggio in Italia. Si respirano arte e scienza raccolte in una sintesi possibile soltanto ad un umanista. E il giardino! Goethe vi piantava alberi da frutta e ortaggi per osservarne la crescita: indagine scientifica nutrita da immenso amore per la vita.
Diario da Weimar: Casa Liszt. Casa Liszt, quella degli ultimi anni, durante i quali per tre o quattro mesi Liszt era qui a Weimar (senza Caroline), per insegnare a una falange di discepoli, è un’intima, toccante emozione. In origine era la casa di un giardiniere e conserva tuttora un piccolissimo giardino. Tutto è modesto, raccolto, nobile. Il gran vcoda Bechstein è stato ammodernato senza pietà, l’Ibach verticale sembra non essere accordato del 1886. Al pianterreno c’è tutta la tecnologia di un moderno museo; contrasta fortemente con l’ambiente deliziosamente ottocentesco dell’appartamento di Liszt. La tracotanza di tanti pianisti “lisztiani” svanisce nel raccoglimento di queste stanze che ci raccontano chi fosse il vero Liszt.
Diario da Weimar: Italian Style. Weimar è invasa da ristoranti italiani (o quasi) e anche in quelli tedeschi sono inevitabili spaghetti e tagliatelle. Persino le scatolette di carne Simmenthal sono esposte come cibo prelibato sugli scaffali di una trattoria calabrese. Paradossalmente, in un momento così negativo per il nostro paese, è evidente come l’“italian style” sia vincente in tutto il mondo.
Diario da Napoli: il violoncello che canta. Non tutti i musicisti militanti sono veri amici della Musica. Sembra un paradosso, eppure non è difficile distinguere i diversi gradi di amore che ci unisce per tutta la vita alla Musica. Giovedì scorso ho conosciuto un GRANDE amico della musica e ho avuto la gioia di suonare insieme a lui. Il violoncello di Enrico Dindo piuttosto che suonare, canta e racconta di un musicista nel pieno della sua energia e della sua maturità. Uno di quei rari casi in cui ogni frase musicale diventa una nuova emozione.
Diario da San Pietroburgo: le corse del ciuccio. Ci vorrebbe un libro intero per scalfire appena l’immensa mole di storia e costume che soffia tra i palazzi e i canali di San Pietroburgo: non si sa se farsi catturare dalla bellezza della città o concentrarsi sulle osservazioni umane. Entrambe le ipotesi sono affascinanti. I russi sono terribilmente russi e le differenze che passano tra un napoletano come me e loro sono tali da rendere l’osservazione di grande interesse antropologico. Per esempio andare in autobus all’ora di punta e uscirne, dopo una violenta lotta con numerose e gentili signore, con il fegato spappolato dagli spintoni, è un’esperienza da non perdere. Peraltro esiste ancora la figura della “bigliettara”, robusta e non giovane, che gira per la vettura a caccia di passeggeri. Un’altra peculiare caratteristica degli abitanti di San Pietroburgo è di fare, guidando l’automobile, “le corse del ciuccio”, ovvero accelerare freneticamente pur vedendo a cento metri un muro di colleghi automobilisti fermi al successivo semaforo. Il taxi preso dall’aeroporto alla città ci ha fatto venire i vermi: sembrava dovesse vendicarsi di gravi torti e volesse suicidarsi con noi. Alla partenza per Roma mi sono fatto scrivere un biglietto dove l’autista era pregato di andar piano…
Diario da San Pietroburgo: una città unica al mondo. Il 5 giugno è il mio compleanno e la cosa è saltata all’occhio attento delle signore alla reception del nostro piccolo albergo. E così mentre armeggiavo con il pc, mi sono visto arrivare su un vassoio un micro fuoco d’artificio e una fetta di torta; tutto il personale e il proprietario mi hanno cantato “tanti auguri” e persino il pittore che ha ornato le pareti dell’albergo mi ha regalato un bel libro di sue creazioni con tanto di dedica in cirillico. E dopo il K 488, Maria Safariants, il direttore del Festival dei Palazzi per cui mi sono esibito, ha messo al corrente il pubblico del genetliaco del solista, consegnandomi una scatola di “palle di Mozart”, famosi cioccolatini in questo caso perfettamente adatti alle circostanze. Chi mai è stato più affettuoso con il sottoscritto? Il concerto si è svolto in una dimora talmente spettacolare, il cosiddetto “Palazzo di marmo”, da lasciare il visitatore senza parole. Un esempio vistoso di come la nobiltà russa, su ispirazione degli zar, gareggiasse con le ricchezze europee e volesse superarle in grandiosità e finezza. Siamo sempre ad un soffio dal kitsch, ma quello che mi colpisce di più è il riferimento costante alla cultura europea e greca (via Palladio): una sorta di gara di emulazione nobile e appassionata. San Pietroburgo è una città di pietre e di colonne. Colonne dappertutto, non soltanto nei grandi edifici aulici, ma anche nelle dimore dei mercanti. Un’architettura di alta retorica, alla ricerca della classicità. Una città unica al mondo.
Il primo pensiero che viene a chi giunge a Bayreuth è di infilarsi in una delle mitiche Konditorei dove troneggiano inverosimili torte alte per lo meno 15 centimetri. Alle quattro del pomeriggio la Konditorei accanto alla stazione, non certo una delle più blasonate, ma comunque vecchia più di un secolo, è affollata di uomini e donne di mezza età (come me), soli o in coppie, seduti comodamente davanti a spaziosi tavoli. La mia seconda torta (…) mi ha attirato perché si presentava come una piramide di frutta su una base di pasta frolla. Il guaio è che sotto la frutta c’era un’anima di panna montata che non poteva essere più peccaminosa. A quanto ammonterà il colesterolo tedesco? Ho trascurato di dire che il giovane che mi condotto in automobile da Monaco a Bayreuth guidava temerariamente a 190 Km all’ora su un’autostrada tutt’altro che deserta. Seconda domanda: perché in Germania non ci sono limiti di velocità sulle autostrade?
Un amico aquilano mi ha sollecitato a raccontare in ogni circostanza qual è la reale situazione dell’Aquila e a smentire l’opinione diffusa che essa sia una città avviata alla normalità. Io posso soltanto testimoniare ciò che vedo camminando in questi giorni. Il 98% dei negozi del centro sono chiusi da quella notte e ho visto in un bar, rifugio di gruppi di operai, l’orologio ancora fermo alle tre e trentadue. Al Corso ci sono due negozi aperti e meriterebbero una medaglia al valor civile. Ho ritrovato con gioia l’enoteca che vende del buon montepulciano. Gruppi rumorosi di giovani si riuniscono in quell’oasi di vita e di allegria, circondati dagli scheletri spettrali dei palazzi intorno. Esistono zone nelle quali si sentono rumori di operai al lavoro, ne esistono altre completamente taciturne. La sera, quando i lavori terminano, il centro piomba in un silenzio pauroso e i passanti sono molto pochi. Ma la vita dell’Aquila continua in periferia, in attesa, un giorno forse lontano, di riappropriarsi della città. E, per quel giorno di felicità, vale la pena di vivere una lunga attesa.
Nella mia passeggiata aquilana ho arrischiato di scendere sino alla fontana dalle 99 cannelle, camminando in una strada totalmente priva di fonti di luce. Eppure essa conduce ad un piccolo borgo che si sviluppa intorno al bellissimo monumento. Tutte le case chiuse, tranne un bell’albergo, misteriosamente unico superstite tra loro. Ho superato la porta che si apre tra le mura della città alla ricerca di un piccolo ristorante da me frequentato prima del terremoto. Era tutto buio, stavo quasi per rinunciare, anche se ricordavo bene l’edificio. Mi ci sono avvicinato e ho per caso incontrato l’oste. Evviva, il ristorante c’è ancora, senza insegne né luci. Il proprietario mi ha raccontato che l’attività post-terremoto è “crollata”. Eppure ho mangiato bene e cosa degna di nota ho bevuto dell’acqua di una fonte che sgorga festosamente proprio nel piccolo cortile dell’osteria. Bevendola, ho pensato che mi dava una felicità ancestrale, un godimento fisico che tocca corde quasi sempre messe a tacere.
Questa settimana sono a L’Aquila per una serie di concerti in Abruzzo. Non mi fermo poche ore come in altre occasioni, ma ben sette giorni. Mi riesce difficile sintetizzare le molteplici emozioni che questa città, da me amata sin da ragazzo, continua dolorosamente a darmi. L’Aquila è sempre stata una città austera e viva nello stesso tempo, severa nei suoi meravigliosi scorci urbanistici e piena di giovani in cerca di svaghi. Ora la nota che agghiaccia il cuore è il silenzio che avvolge il centro storico; sono entrato nella Basilica di Collemaggio. La facciata illude, l’interno sconvolge. È come ritrovare non l’ambiente amico ma un fantasma minaccioso che l’ha sostituita. Se Collemaggio, non una chiesa qualunque ma una pietra miliare della nostra storia, si presenta colpita a morte al visitatore incredulo, l’emozione che ti aggredisce non tocca soltanto l’amore per l’arte italiana, ma la nostra stessa identità ferita.
Lo scorso 7 febbraio ho debuttato in recital, alla mia tenera età, a Monfalcone. Un’altra delle belle sorprese della provincia italiana:un teatro moderno, attrezzatura di scena efficiente, accoglienza professionale. Ma la cosa che mi spinge a scrivere è la presenza al mio concerto del M° Renato Zanettovich. Per chi ancora non lo sapesse, il Maestro, un pilastro della musica da camera europea per 70 anni, va per i 92 e non vive a Monfalcone, bensì a Trieste. Ebbene Renato, lo chiamo così perché gli sono amico, ha considerato il viaggio da casa al teatro come una seccatura superabile:la sua partecipazione è un gesto di amicizia, di amore per la musica che mi commuove. Grazie, Renato.
Ecco terminata questa bella avventura. Continuo ad avere una straordinaria impressione di quest’orchestra: di un’elasticità immediata, di una professionalità nutrita dall’orgoglio di appartenere ad una grande istituzione. Ma che merita di essere sottolineato è che qui funziona tutto, ovvero tutti i livelli della struttura, ogni ufficio sa quello che deve fare e lo fa. L’orchestra è così sostenuta e non deve altro che concentrarsi sulla musica. In tal modo i talenti vengono valorizzati al massimo. La competizione in America è spaventosa e procura costante tensione in ogni comparto lavorativo. La vita non è facile: ma l’altra faccia della medaglia è che quando qualcosa funziona, si arriva ai massimi livelli. L’inserimento di Muti in questa fortissima realtà ha dato una marcia in più a tutto l’ambiente. I risultati si sentono… si torna in Italia, amata e disperante, nella realtà immobile di tutti i giorni. Non per questo si deve mollare.
Ieri e oggi niente concerti, quindi visita alla città. Soprattutto la gita in battello sul fiume omonimo che ha la ventura di passare in mezzo al centro della città tra una sequenza incredibile di grattacieli. Sembra la versione ipermoderna del Canalgrande di Venezia ed è qualcosa che per un italiano è inimmaginabile. Ci si riconcilia con l’architettura moderna. Poi l’Art Institute, un gigantesco museo dove spiccano opere formidabili degli impressionisti francesi. Su di loro è inutile aggiungere cose già dette: ma in un angolo trascurato della pinacoteca ho scoperto un quadro di eccezionale qualità di Luca Cambiaso. Tanto per dire che anche gli autori minori hanno sprazzi di genialità imprevedibile. Ma come si poteva non andare a gironzolare in un centro commerciale posto in verticale in un grattacielo del Magnificent Mile? Quante piccole o minime cose da scoprire diverse dalle nostre! Le manie americane, gli aspetti sociali all’avanguardia (i diversamente abili possono salire sugli autobus da soli con la loro poltrona mobile), le arretratezze, tanti dettagli che rendono ancora il mondo interessante. Domani si rientra nella normalità, alle 19 e 30 ultima replica del programma lisztiano.
Ascoltando e osservando quest’orchestra si capisce cosa significa la parola. Una vera orchestra, nei comportamenti umani, sociali, musicali. Una società di musicisti completamente coesi e solidali. Con risultati impressionanti che sono frutto di una mentalità prima che di un’abilità. Il rapporto con Muti è tale che basta un suo sopraciglio per avere una reazione. Una complicità, una comunicazione che è la premessa per risultati formidabili. L’altra sera siamo andati, Monica ed io, ad ascoltare jazz nel club più amato della città. Be’, quello swing è solo per gli americani, noi possiamo tutt’al più imitarlo. La mia assoluta ignoranza della prassi jazzistica non esclude che questa musica mi riempia di gioia e ammirazione. Non posso descrivere la totale disinibizione del pubblico che parlava, rideva, beveva, ballava (benissimo) e l’aspetto dei musicisti, tutt’altro che alternativo. Persone normali, ben vestite, taciturne e riservate. Mai, incontrandole per strada, avresti detto che sono artisti. L’aspetto ”artistico” non è elemento indispensabile per la qualità. Quel club e la Chicago Symphony sono due aspetti complementari della vita musicale americana, splendida in entrambi i casi.
Ho appena finito di suonare in una sala che fa una certa impressione, per il silenzio che circonda l’esecuzione e le urla di entusiasmo che seguono. Si respira aria di montagna. Lo Yamaha che è arrivato per me da New York con il suo accordatore (che non capisce quasi niente di inglese…) si è comportato benissimo, dopo un po’ di lavoro: era nuovo di zecca e ad una macchina in rodaggio non si chiedono le massime prestazioni. Ma quello che mi ha più colpito di questa esperienza musicale è stato l’ascolto della Faust Symphonie che Muti dirige nella seconda parte del programma. Riascoltarla dopo tanti anni, dal vivo, mi ha confermato che tutta la poetica di Liszt sta dentro questa composizione: se la si comprende a fondo, si può suonare ogni altro Liszt. Senza di essa il centro della sua personalità è perduto. Ogni pianista che ama suonare Liszt dovrebbe studiarla come punto fondamentale del proprio lavoro. Muti la porta in teatro, ne fa giustamente un pezzo d’opera, pieno di colori e atmosfere piuttosto che una sinfonia della tradizione tedesca. Ha perfettamente ragione e Liszt lo benedice dall’alto.
Tornare dopo 25 anni in una sala da concerto prestigiosa: cosa ricordo di essa? Praticamente nulla, non la affascinante architettura, non l’acustica sostenuta. È come se ci debuttassi ora. E veramente sul manifesto fuori la strada c’è scritto che questi concerti sono il mio debutto… tutto cancellato. È avvilente pensare che suoniamo per quel brevissimo spazio temporale che è riempito dal brano in programma e di quel lavoro che sta alle sue spalle (incalcolabile) non resta alcuna traccia. È bellissimo quando qualcuno viene a dirmi che ricorda con emozione una mia esecuzione vecchia di 30 anni. Con Muti non suonavo dal 1984. Philadelphia, Concerto in la e Totentanz di Liszt. Un ritorno a quella comune matrice che traspare dalla lettura del testo e dal modo di concepire il rapporto con la musica stessa. Con lui poche parole, prova breve, essenziale. Perché l’orchestra legge a prima vista risolvendo problemi che in altre circostanze richiedono studio. Tutto sembra facile, scontato quasi ovvio. Ma non lo è affatto e ben lo sa chi viaggia un po’ dappertutto. Domani giorno di riposo per una festa ebraica. Anche chi non è ebreo la rispetta. Dopodomani prova generale e primo concerto. A presto
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